IL PESO INVISIBILE SUI DAZI

quando la pasta diventa frontiera

15/10/25

IL PESO INVISIBILE SUI DAZI

quando la pasta diventa frontiera

15/10/25

IL PESO INVISIBILE SUI DAZI

quando la pasta diventa frontiera

15/10/25

Ci sono muri che non si vedono, eppure pesano più del cemento. Sono quelli fatti di cifre, di percentuali, di politiche lontane che finiscono per toccare la materia più fragile e quotidiana: il cibo.

Così, in un mondo che misura il valore del grano in tonnellate e il sogno della tavola in dollari, anche la pasta italiana si scopre merce doganale, prigioniera di un dazio che sfiora l’assurdo: 107% di barriera invisibile.

Dietro a quel numero si cela un mondo intero — di dogane, container, e navi che solcano l’Atlantico portando non solo spaghetti, ma un’idea di civiltà. Perché la pasta, quando attraversa il mare, non esporta solo un prodotto: esporta una lingua, un gesto, un modo di condividere il tempo.

Eppure basta un decreto, un sospetto di dumping o una guerra commerciale per spezzare quella trama sottile che lega il produttore di Gragnano al ristorante di New York, la trafila di bronzo al piatto fumante su una tavola straniera.

In questo scenario, il dazio diventa metafora: la misura della distanza fra chi impasta e chi assaggia, fra chi coltiva e chi consuma. È un muro economico che separa culture, non solo mercati.

Ma anche davanti a un 107% di chiusura, la pasta resta testarda: continua a farsi ambasciatrice, a scivolare sotto le frontiere come un messaggio di pace arrotolato su una forchetta.

Forse, in fondo, la vera tassa è quella che paghiamo alla nostra miopia: l’incapacità di riconoscere che ogni piatto di pasta è un ponte, non una barriera. Che dentro un pacco di spaghetti non ci sono solo calorie e profitto, ma una storia millenaria di mani, sapienza, grano , libertà e che nessun dazio potrà mai tassare — né confiscare — il profumo dell’Italia quando l’acqua bolle e il mondo, per un istante, torna a tavola.

Ci sono muri che non si vedono, eppure pesano più del cemento. Sono quelli fatti di cifre, di percentuali, di politiche lontane che finiscono per toccare la materia più fragile e quotidiana: il cibo.

Così, in un mondo che misura il valore del grano in tonnellate e il sogno della tavola in dollari, anche la pasta italiana si scopre merce doganale, prigioniera di un dazio che sfiora l’assurdo: 107% di barriera invisibile.

Dietro a quel numero si cela un mondo intero — di dogane, container, e navi che solcano l’Atlantico portando non solo spaghetti, ma un’idea di civiltà. Perché la pasta, quando attraversa il mare, non esporta solo un prodotto: esporta una lingua, un gesto, un modo di condividere il tempo.

Eppure basta un decreto, un sospetto di dumping o una guerra commerciale per spezzare quella trama sottile che lega il produttore di Gragnano al ristorante di New York, la trafila di bronzo al piatto fumante su una tavola straniera.

In questo scenario, il dazio diventa metafora: la misura della distanza fra chi impasta e chi assaggia, fra chi coltiva e chi consuma. È un muro economico che separa culture, non solo mercati.

Ma anche davanti a un 107% di chiusura, la pasta resta testarda: continua a farsi ambasciatrice, a scivolare sotto le frontiere come un messaggio di pace arrotolato su una forchetta.

Forse, in fondo, la vera tassa è quella che paghiamo alla nostra miopia: l’incapacità di riconoscere che ogni piatto di pasta è un ponte, non una barriera. Che dentro un pacco di spaghetti non ci sono solo calorie e profitto, ma una storia millenaria di mani, sapienza, grano , libertà e che nessun dazio potrà mai tassare — né confiscare — il profumo dell’Italia quando l’acqua bolle e il mondo, per un istante, torna a tavola.

Ci sono muri che non si vedono, eppure pesano più del cemento. Sono quelli fatti di cifre, di percentuali, di politiche lontane che finiscono per toccare la materia più fragile e quotidiana: il cibo.

Così, in un mondo che misura il valore del grano in tonnellate e il sogno della tavola in dollari, anche la pasta italiana si scopre merce doganale, prigioniera di un dazio che sfiora l’assurdo: 107% di barriera invisibile.

Dietro a quel numero si cela un mondo intero — di dogane, container, e navi che solcano l’Atlantico portando non solo spaghetti, ma un’idea di civiltà. Perché la pasta, quando attraversa il mare, non esporta solo un prodotto: esporta una lingua, un gesto, un modo di condividere il tempo.

Eppure basta un decreto, un sospetto di dumping o una guerra commerciale per spezzare quella trama sottile che lega il produttore di Gragnano al ristorante di New York, la trafila di bronzo al piatto fumante su una tavola straniera.

In questo scenario, il dazio diventa metafora: la misura della distanza fra chi impasta e chi assaggia, fra chi coltiva e chi consuma. È un muro economico che separa culture, non solo mercati.

Ma anche davanti a un 107% di chiusura, la pasta resta testarda: continua a farsi ambasciatrice, a scivolare sotto le frontiere come un messaggio di pace arrotolato su una forchetta.

Forse, in fondo, la vera tassa è quella che paghiamo alla nostra miopia: l’incapacità di riconoscere che ogni piatto di pasta è un ponte, non una barriera. Che dentro un pacco di spaghetti non ci sono solo calorie e profitto, ma una storia millenaria di mani, sapienza, grano , libertà e che nessun dazio potrà mai tassare — né confiscare — il profumo dell’Italia quando l’acqua bolle e il mondo, per un istante, torna a tavola.