GEOGRAFIE DELLA PASTA

7 lug 2025

GEOGRAFIE DELLA PASTA

7 lug 2025

GEOGRAFIE DELLA PASTA

7 lug 2025

C’è un tesoro che si cela nei cassetti della memoria gastronomica campana: un repertorio di paste antiche, formati singolari nati dall’ingegno dei pastai di paese, custoditi da famiglie, conventi e piccoli pastifici artigianali come reliquie del gusto. In un’epoca in cui l’omologazione minaccia di livellare ogni tavola, queste forme rare si ergono come testimoni silenziosi della storia più autentica del Sud.

Tra le pieghe di questa tradizione sopravvivono i mischiati potenti - ammescat in dialetto napoletano significa “mischiata/mescolata” - ammassi disordinati di paste diverse, un tempo frutto della necessità e oggi omaggio alla creatività popolare: un gioco di consistenze e tempi di cottura che fa del piatto una sinfonia imperfetta e irripetibile. E ancora i cecatielli, piccole eliche arricciate a mano, che nelle cucine di Avellino e Benevento accompagnavano il sugo di tracchie o i legumi della domenica.

Scendendo verso la costa, si incontrano le laganelle spezzate, sorelle minori delle celebri lagane, tagliate a mano con gesto rapido e deciso: destinate a insaporire i piatti più umili, tra ceci e cicoria, o a raccogliere il generoso condimento delle salse di pomodoro denso e peperone. I ferretti di Avigliano, dalla forma allungata e cava, nati per mano di donne pazienti che, con un ferro sottile, arrotolavano la pasta fresca fino a trasformarla in piccoli cilindri rugosi: un formato che pare evocare la tenacia della terra lucana che lambisce i confini campani.

E poi i cannaroni, i maccaruncielli, le caccavelle giganti: nomi che raccontano di allegria e abbondanza, di forni accesi nei giorni di festa, di piatti fumanti portati in tavola tra il profumo di basilico e provola affumicata.

La Campania custodisce questi formati come un archivio vivo della sua identità. Sono la voce di un passato che ancora oggi, se lo si sa ascoltare, sussurra nelle botteghe di Gragnano, nei mercati di provincia, nelle cucine dove il tempo ha un altro passo. Recuperare questi formati significa ricucire un filo spezzato, restituire dignità a gesti e sapori che il tempo aveva provato a seppellire.

La pasta non è solo alimento: è linguaggio, memoria e arte. E quei formati rari e sconosciuti che la Campania ancora cela tra le sue pieghe sono piccoli poemi da riscoprire, da cuocere lentamente, da servire come si serve una storia preziosa.

C’è un tesoro che si cela nei cassetti della memoria gastronomica campana: un repertorio di paste antiche, formati singolari nati dall’ingegno dei pastai di paese, custoditi da famiglie, conventi e piccoli pastifici artigianali come reliquie del gusto. In un’epoca in cui l’omologazione minaccia di livellare ogni tavola, queste forme rare si ergono come testimoni silenziosi della storia più autentica del Sud.

Tra le pieghe di questa tradizione sopravvivono i mischiati potenti - ammescat in dialetto napoletano significa “mischiata/mescolata” - ammassi disordinati di paste diverse, un tempo frutto della necessità e oggi omaggio alla creatività popolare: un gioco di consistenze e tempi di cottura che fa del piatto una sinfonia imperfetta e irripetibile. E ancora i cecatielli, piccole eliche arricciate a mano, che nelle cucine di Avellino e Benevento accompagnavano il sugo di tracchie o i legumi della domenica.

Scendendo verso la costa, si incontrano le laganelle spezzate, sorelle minori delle celebri lagane, tagliate a mano con gesto rapido e deciso: destinate a insaporire i piatti più umili, tra ceci e cicoria, o a raccogliere il generoso condimento delle salse di pomodoro denso e peperone. I ferretti di Avigliano, dalla forma allungata e cava, nati per mano di donne pazienti che, con un ferro sottile, arrotolavano la pasta fresca fino a trasformarla in piccoli cilindri rugosi: un formato che pare evocare la tenacia della terra lucana che lambisce i confini campani.

E poi i cannaroni, i maccaruncielli, le caccavelle giganti: nomi che raccontano di allegria e abbondanza, di forni accesi nei giorni di festa, di piatti fumanti portati in tavola tra il profumo di basilico e provola affumicata.

La Campania custodisce questi formati come un archivio vivo della sua identità. Sono la voce di un passato che ancora oggi, se lo si sa ascoltare, sussurra nelle botteghe di Gragnano, nei mercati di provincia, nelle cucine dove il tempo ha un altro passo. Recuperare questi formati significa ricucire un filo spezzato, restituire dignità a gesti e sapori che il tempo aveva provato a seppellire.

La pasta non è solo alimento: è linguaggio, memoria e arte. E quei formati rari e sconosciuti che la Campania ancora cela tra le sue pieghe sono piccoli poemi da riscoprire, da cuocere lentamente, da servire come si serve una storia preziosa.

C’è un tesoro che si cela nei cassetti della memoria gastronomica campana: un repertorio di paste antiche, formati singolari nati dall’ingegno dei pastai di paese, custoditi da famiglie, conventi e piccoli pastifici artigianali come reliquie del gusto. In un’epoca in cui l’omologazione minaccia di livellare ogni tavola, queste forme rare si ergono come testimoni silenziosi della storia più autentica del Sud.

Tra le pieghe di questa tradizione sopravvivono i mischiati potenti - ammescat in dialetto napoletano significa “mischiata/mescolata” - ammassi disordinati di paste diverse, un tempo frutto della necessità e oggi omaggio alla creatività popolare: un gioco di consistenze e tempi di cottura che fa del piatto una sinfonia imperfetta e irripetibile. E ancora i cecatielli, piccole eliche arricciate a mano, che nelle cucine di Avellino e Benevento accompagnavano il sugo di tracchie o i legumi della domenica.

Scendendo verso la costa, si incontrano le laganelle spezzate, sorelle minori delle celebri lagane, tagliate a mano con gesto rapido e deciso: destinate a insaporire i piatti più umili, tra ceci e cicoria, o a raccogliere il generoso condimento delle salse di pomodoro denso e peperone. I ferretti di Avigliano, dalla forma allungata e cava, nati per mano di donne pazienti che, con un ferro sottile, arrotolavano la pasta fresca fino a trasformarla in piccoli cilindri rugosi: un formato che pare evocare la tenacia della terra lucana che lambisce i confini campani.

E poi i cannaroni, i maccaruncielli, le caccavelle giganti: nomi che raccontano di allegria e abbondanza, di forni accesi nei giorni di festa, di piatti fumanti portati in tavola tra il profumo di basilico e provola affumicata.

La Campania custodisce questi formati come un archivio vivo della sua identità. Sono la voce di un passato che ancora oggi, se lo si sa ascoltare, sussurra nelle botteghe di Gragnano, nei mercati di provincia, nelle cucine dove il tempo ha un altro passo. Recuperare questi formati significa ricucire un filo spezzato, restituire dignità a gesti e sapori che il tempo aveva provato a seppellire.

La pasta non è solo alimento: è linguaggio, memoria e arte. E quei formati rari e sconosciuti che la Campania ancora cela tra le sue pieghe sono piccoli poemi da riscoprire, da cuocere lentamente, da servire come si serve una storia preziosa.