LA RI(SCOPERTA) DELA PASTA SCOTTA?

15 ott 2025

LA RI(SCOPERTA) DELA PASTA SCOTTA?

15 ott 2025

LA RI(SCOPERTA) DELA PASTA SCOTTA?

15 ott 2025

C’è un che di dannatamente testardo e fedele nel sollevare una forchettata di spaghetti molli: un gesto antico, quasi compassionevole, rivolto a sé stessi. Eppure, prima che l’ideale ‘al dente’ diventasse dogma nazionale, la pasta, in Italia, si consumava lenta e tanto tanto cedevole, quasi remissiva. La sua consistenza era, appunto, quella dell’arrendevolezza, della pazienza, dell’attesa.

Nel cuore del Rinascimento, cuochi eccelsi come Maestro Martino da Como, lasciavano i maccaroni sobbollire per ore, affinché si sfaldassero in un abbraccio morbido, quasi cremante. La lunga cottura non era una svista sciattona, ma virtù: arte del tempo, della cura, della digestione facilitata.

I ricettari cinquecenteschi lo confermano con serafica tranquillità: “Bolliteli fino a che siano ben cotti”, ovvero sfiniti e vinti dalla fiamma.

La svolta, lenta come un’infiltrazione culturale, giunge dal Sud. A Napoli, patria dell’’arraggiata’ alchimia tra grano duro e acqua, nasce l’intuizione del morso: la pasta deve essere “non troppo cotta”, ancora viva, quasi nervosa. È lì che germina, quasi in sordina, il primo sentore di ‘al dente’, un principio che prenderà forma solo nei secoli a venire.

E tuttavia, mentre in Italia si affinava il culto dell’elasticità perfetta, molti nostri emigrati – partiti prima che questa rivoluzione fosse compiuta – portarono con sé un’altra idea di pasta: più tenera, più docile, più consolante. Così, fuori dai confini, si è perpetuato un gesto antico: quello della pasta che si cuoce finché si lascia piuttosto andare.

Oggi, nella sacralità del minuto cronometrato, guardiamo con sospetto e orrore a quel passato rammollito, ma forse dovremmo invece riconoscerlo per ciò che fu: un’altra forma di amore; una pasta che non crocchia sotto i denti – è vero - ma accarezza il palato, come il tempo che non corre, ma che si lascia attraversare.

C’è un che di dannatamente testardo e fedele nel sollevare una forchettata di spaghetti molli: un gesto antico, quasi compassionevole, rivolto a sé stessi. Eppure, prima che l’ideale ‘al dente’ diventasse dogma nazionale, la pasta, in Italia, si consumava lenta e tanto tanto cedevole, quasi remissiva. La sua consistenza era, appunto, quella dell’arrendevolezza, della pazienza, dell’attesa.

Nel cuore del Rinascimento, cuochi eccelsi come Maestro Martino da Como, lasciavano i maccaroni sobbollire per ore, affinché si sfaldassero in un abbraccio morbido, quasi cremante. La lunga cottura non era una svista sciattona, ma virtù: arte del tempo, della cura, della digestione facilitata.

I ricettari cinquecenteschi lo confermano con serafica tranquillità: “Bolliteli fino a che siano ben cotti”, ovvero sfiniti e vinti dalla fiamma.

La svolta, lenta come un’infiltrazione culturale, giunge dal Sud. A Napoli, patria dell’’arraggiata’ alchimia tra grano duro e acqua, nasce l’intuizione del morso: la pasta deve essere “non troppo cotta”, ancora viva, quasi nervosa. È lì che germina, quasi in sordina, il primo sentore di ‘al dente’, un principio che prenderà forma solo nei secoli a venire.

E tuttavia, mentre in Italia si affinava il culto dell’elasticità perfetta, molti nostri emigrati – partiti prima che questa rivoluzione fosse compiuta – portarono con sé un’altra idea di pasta: più tenera, più docile, più consolante. Così, fuori dai confini, si è perpetuato un gesto antico: quello della pasta che si cuoce finché si lascia piuttosto andare.

Oggi, nella sacralità del minuto cronometrato, guardiamo con sospetto e orrore a quel passato rammollito, ma forse dovremmo invece riconoscerlo per ciò che fu: un’altra forma di amore; una pasta che non crocchia sotto i denti – è vero - ma accarezza il palato, come il tempo che non corre, ma che si lascia attraversare.

C’è un che di dannatamente testardo e fedele nel sollevare una forchettata di spaghetti molli: un gesto antico, quasi compassionevole, rivolto a sé stessi. Eppure, prima che l’ideale ‘al dente’ diventasse dogma nazionale, la pasta, in Italia, si consumava lenta e tanto tanto cedevole, quasi remissiva. La sua consistenza era, appunto, quella dell’arrendevolezza, della pazienza, dell’attesa.

Nel cuore del Rinascimento, cuochi eccelsi come Maestro Martino da Como, lasciavano i maccaroni sobbollire per ore, affinché si sfaldassero in un abbraccio morbido, quasi cremante. La lunga cottura non era una svista sciattona, ma virtù: arte del tempo, della cura, della digestione facilitata.

I ricettari cinquecenteschi lo confermano con serafica tranquillità: “Bolliteli fino a che siano ben cotti”, ovvero sfiniti e vinti dalla fiamma.

La svolta, lenta come un’infiltrazione culturale, giunge dal Sud. A Napoli, patria dell’’arraggiata’ alchimia tra grano duro e acqua, nasce l’intuizione del morso: la pasta deve essere “non troppo cotta”, ancora viva, quasi nervosa. È lì che germina, quasi in sordina, il primo sentore di ‘al dente’, un principio che prenderà forma solo nei secoli a venire.

E tuttavia, mentre in Italia si affinava il culto dell’elasticità perfetta, molti nostri emigrati – partiti prima che questa rivoluzione fosse compiuta – portarono con sé un’altra idea di pasta: più tenera, più docile, più consolante. Così, fuori dai confini, si è perpetuato un gesto antico: quello della pasta che si cuoce finché si lascia piuttosto andare.

Oggi, nella sacralità del minuto cronometrato, guardiamo con sospetto e orrore a quel passato rammollito, ma forse dovremmo invece riconoscerlo per ciò che fu: un’altra forma di amore; una pasta che non crocchia sotto i denti – è vero - ma accarezza il palato, come il tempo che non corre, ma che si lascia attraversare.