LA PASTA NELL’OTTOCENTO

tra artigianato e industria nascente

13 ott 2025

LA PASTA NELL’OTTOCENTO

tra artigianato e industria nascente

13 ott 2025

LA PASTA NELL’OTTOCENTO

tra artigianato e industria nascente

13 ott 2025

Ci sono secoli che segnano svolte silenziose, e l’Ottocento — per la pasta italiana — fu uno di questi.
È il secolo in cui la farina smette di essere soltanto materia viva tra le mani dei maccaronari per farsi prodotto d’ingegno, ponte fra tradizione e modernità, arte e meccanica.
Nel corso di questi decenni, l’Italia assiste al duplice miracolo di una democratizzazione alimentare e di una rivoluzione produttiva: la pasta, fino ad allora riservata a pochi o consumata in forma semplice, diventa alimento identitario, quotidiano e nazionale.
Il cuore di questa trasformazione batte nel Sud, tra Gragnano e Torre Annunziata, dove clima e vento asciutto rendono possibile l’essiccazione naturale dei lunghi fili dorati. Qui nascono veri distretti pastai, ancora radicati in un sapere artigiano ma già pronti ad accogliere la modernità.
Le antiche botteghe dei maccaronari, custodi di gesti lenti e precisi, cominciano a dialogare con una nuova figura: l’industriale pastario, erede e innovatore insieme, che trasforma la tradizione in mestiere organizzato.
Fondamentale in questo passaggio fu l’introduzione della trafila in bronzo, che permise di conferire alla pasta una superficie ruvida e porosa, ideale per trattenere il sugo: una conquista tecnica e sensoriale che avrebbe segnato per sempre la qualità del prodotto italiano.
E ancora, la pressa meccanica a vite senza fine, perfezionata intorno alla metà del secolo e attribuita all’ingegno dell’ingegnere Cesare Spadaccini sotto il regno di Ferdinando II di Borbone, rese possibile un impasto più omogeneo e continuo, aprendo la via alla produzione su scala industriale.
Ma l’Ottocento non fu soltanto il secolo delle macchine: fu anche quello delle masse, del pane e della pasta che diventano sostentamento e simbolo.
A Napoli, dove la povertà urbana cresce insieme alla popolazione, i maccheroni diventano rito quotidiano: economici, nutrienti, condivisi. Gli stranieri ne restano affascinati — Goethe, Dumas, Stendhal — e li immortalano come segno distintivo di un popolo che, pur tra le difficoltà, conserva gusto e dignità.
Nasce da qui il mito del “mangiamaccheroni”, figura sorridente e fiera che incarna una forma di libertà semplice e solare.
Sul piano simbolico, la pasta diventa un confine gastronomico e culturale: da un lato la Francia, ancora legata al trionfo delle carni e delle salse elaborate; dall’altro l’Italia, che nella pasta riconosce un principio di sobrietà, ingegno e identità collettiva.
È in questo secolo che la pasta smette di essere soltanto cibo per farsi lingua comune: alimento democratico e poetico insieme, capace di raccontare il Paese meglio di mille proclami.
Così, tra il cortile assolato di un pastificio borbonico e il primo scaffale di un negozio urbano, si compie il passaggio epocale: dalla pasta impastata a mano alla pasta meccanica, dall’arte domestica alla produzione moderna.
Lì, nel silenzio operoso delle trafile e nel profumo del grano duro che asciuga al vento del Golfo, prende forma l’epopea che porterà la pasta a diventare ciò che oggi è: l’anima stessa dell’Italia in tavola.

Ci sono secoli che segnano svolte silenziose, e l’Ottocento — per la pasta italiana — fu uno di questi.
È il secolo in cui la farina smette di essere soltanto materia viva tra le mani dei maccaronari per farsi prodotto d’ingegno, ponte fra tradizione e modernità, arte e meccanica.
Nel corso di questi decenni, l’Italia assiste al duplice miracolo di una democratizzazione alimentare e di una rivoluzione produttiva: la pasta, fino ad allora riservata a pochi o consumata in forma semplice, diventa alimento identitario, quotidiano e nazionale.
Il cuore di questa trasformazione batte nel Sud, tra Gragnano e Torre Annunziata, dove clima e vento asciutto rendono possibile l’essiccazione naturale dei lunghi fili dorati. Qui nascono veri distretti pastai, ancora radicati in un sapere artigiano ma già pronti ad accogliere la modernità.
Le antiche botteghe dei maccaronari, custodi di gesti lenti e precisi, cominciano a dialogare con una nuova figura: l’industriale pastario, erede e innovatore insieme, che trasforma la tradizione in mestiere organizzato.
Fondamentale in questo passaggio fu l’introduzione della trafila in bronzo, che permise di conferire alla pasta una superficie ruvida e porosa, ideale per trattenere il sugo: una conquista tecnica e sensoriale che avrebbe segnato per sempre la qualità del prodotto italiano.
E ancora, la pressa meccanica a vite senza fine, perfezionata intorno alla metà del secolo e attribuita all’ingegno dell’ingegnere Cesare Spadaccini sotto il regno di Ferdinando II di Borbone, rese possibile un impasto più omogeneo e continuo, aprendo la via alla produzione su scala industriale.
Ma l’Ottocento non fu soltanto il secolo delle macchine: fu anche quello delle masse, del pane e della pasta che diventano sostentamento e simbolo.
A Napoli, dove la povertà urbana cresce insieme alla popolazione, i maccheroni diventano rito quotidiano: economici, nutrienti, condivisi. Gli stranieri ne restano affascinati — Goethe, Dumas, Stendhal — e li immortalano come segno distintivo di un popolo che, pur tra le difficoltà, conserva gusto e dignità.
Nasce da qui il mito del “mangiamaccheroni”, figura sorridente e fiera che incarna una forma di libertà semplice e solare.
Sul piano simbolico, la pasta diventa un confine gastronomico e culturale: da un lato la Francia, ancora legata al trionfo delle carni e delle salse elaborate; dall’altro l’Italia, che nella pasta riconosce un principio di sobrietà, ingegno e identità collettiva.
È in questo secolo che la pasta smette di essere soltanto cibo per farsi lingua comune: alimento democratico e poetico insieme, capace di raccontare il Paese meglio di mille proclami.
Così, tra il cortile assolato di un pastificio borbonico e il primo scaffale di un negozio urbano, si compie il passaggio epocale: dalla pasta impastata a mano alla pasta meccanica, dall’arte domestica alla produzione moderna.
Lì, nel silenzio operoso delle trafile e nel profumo del grano duro che asciuga al vento del Golfo, prende forma l’epopea che porterà la pasta a diventare ciò che oggi è: l’anima stessa dell’Italia in tavola.

Ci sono secoli che segnano svolte silenziose, e l’Ottocento — per la pasta italiana — fu uno di questi.
È il secolo in cui la farina smette di essere soltanto materia viva tra le mani dei maccaronari per farsi prodotto d’ingegno, ponte fra tradizione e modernità, arte e meccanica.
Nel corso di questi decenni, l’Italia assiste al duplice miracolo di una democratizzazione alimentare e di una rivoluzione produttiva: la pasta, fino ad allora riservata a pochi o consumata in forma semplice, diventa alimento identitario, quotidiano e nazionale.
Il cuore di questa trasformazione batte nel Sud, tra Gragnano e Torre Annunziata, dove clima e vento asciutto rendono possibile l’essiccazione naturale dei lunghi fili dorati. Qui nascono veri distretti pastai, ancora radicati in un sapere artigiano ma già pronti ad accogliere la modernità.
Le antiche botteghe dei maccaronari, custodi di gesti lenti e precisi, cominciano a dialogare con una nuova figura: l’industriale pastario, erede e innovatore insieme, che trasforma la tradizione in mestiere organizzato.
Fondamentale in questo passaggio fu l’introduzione della trafila in bronzo, che permise di conferire alla pasta una superficie ruvida e porosa, ideale per trattenere il sugo: una conquista tecnica e sensoriale che avrebbe segnato per sempre la qualità del prodotto italiano.
E ancora, la pressa meccanica a vite senza fine, perfezionata intorno alla metà del secolo e attribuita all’ingegno dell’ingegnere Cesare Spadaccini sotto il regno di Ferdinando II di Borbone, rese possibile un impasto più omogeneo e continuo, aprendo la via alla produzione su scala industriale.
Ma l’Ottocento non fu soltanto il secolo delle macchine: fu anche quello delle masse, del pane e della pasta che diventano sostentamento e simbolo.
A Napoli, dove la povertà urbana cresce insieme alla popolazione, i maccheroni diventano rito quotidiano: economici, nutrienti, condivisi. Gli stranieri ne restano affascinati — Goethe, Dumas, Stendhal — e li immortalano come segno distintivo di un popolo che, pur tra le difficoltà, conserva gusto e dignità.
Nasce da qui il mito del “mangiamaccheroni”, figura sorridente e fiera che incarna una forma di libertà semplice e solare.
Sul piano simbolico, la pasta diventa un confine gastronomico e culturale: da un lato la Francia, ancora legata al trionfo delle carni e delle salse elaborate; dall’altro l’Italia, che nella pasta riconosce un principio di sobrietà, ingegno e identità collettiva.
È in questo secolo che la pasta smette di essere soltanto cibo per farsi lingua comune: alimento democratico e poetico insieme, capace di raccontare il Paese meglio di mille proclami.
Così, tra il cortile assolato di un pastificio borbonico e il primo scaffale di un negozio urbano, si compie il passaggio epocale: dalla pasta impastata a mano alla pasta meccanica, dall’arte domestica alla produzione moderna.
Lì, nel silenzio operoso delle trafile e nel profumo del grano duro che asciuga al vento del Golfo, prende forma l’epopea che porterà la pasta a diventare ciò che oggi è: l’anima stessa dell’Italia in tavola.