
IL RITO PRIMORDIALE DELLA CACIO E PEPE
secondo Riccardo Camanini
22 giu 2025

IL RITO PRIMORDIALE DELLA CACIO E PEPE
secondo Riccardo Camanini
22 giu 2025

IL RITO PRIMORDIALE DELLA CACIO E PEPE
secondo Riccardo Camanini
22 giu 2025
Non è solo un piatto, ma un atto rituale. Un gesto ancestrale travestito da alta cucina. Nella Cacio e Pepe in vescica di Riccardo Camanini — patron e demiurgo del ristorante Lido 84, affacciato sulle sponde del Garda — si compie una trasfigurazione arcaica e insieme visionaria della romanissima triade: pasta, pecorino, pepe.
Il recipiente non è un piatto ma una vescica di maiale gonfiata e legata, come usavano i contadini di un tempo per conservare e trasportare i formaggi molli. Camanini la riscopre e la reinterpreta come involucro di cottura, affidando alla sua porosità, alla sua memoria animale, la funzione di mediatrice fra la materia e il fuoco. All’interno, vermicelli di pasta cruda, pecorino di fossa grattugiato, pepe nero schiacciato al mortaio e un’aggiunta calibrata d’acqua: null’altro. Nessuna mantecatura finale, nessuna concessione all’illusionismo tecnico. È il tempo, lento e invisibile, a fare il lavoro dello chef: la pasta cuoce a bassa temperatura nella vescica chiusa, dove l’umidità e il grasso naturale del contenitore ammorbidiscono gli amidi, avvolgono gli spigoli del pecorino, arrotondano la speziatura.
Il risultato, servito con un gesto quasi sacrale, è una pasta che conserva la sua anima rustica ma la sublima in eleganza: setosa, intensa, carnale. La cremosità non è emulsione ma fermento. Il pepe non brucia, persuade. Il formaggio non copre, nutre. È un piatto che non parla di Roma ma del mondo, di un passato prelinguistico dove cibo e sopravvivenza coincidevano, e dove il cuoco era ancora un alchimista.
Nel panorama della cucina italiana contemporanea, la Cacio e Pepe in vescica è uno dei pochi piatti davvero iconici. Non tanto per la sua forma, quanto per la sua filosofia: un pensiero che si fa alimento, un’archeologia del gusto piegata alla ricerca, un omaggio al potere simbolico della cottura.
Non è solo un piatto, ma un atto rituale. Un gesto ancestrale travestito da alta cucina. Nella Cacio e Pepe in vescica di Riccardo Camanini — patron e demiurgo del ristorante Lido 84, affacciato sulle sponde del Garda — si compie una trasfigurazione arcaica e insieme visionaria della romanissima triade: pasta, pecorino, pepe.
Il recipiente non è un piatto ma una vescica di maiale gonfiata e legata, come usavano i contadini di un tempo per conservare e trasportare i formaggi molli. Camanini la riscopre e la reinterpreta come involucro di cottura, affidando alla sua porosità, alla sua memoria animale, la funzione di mediatrice fra la materia e il fuoco. All’interno, vermicelli di pasta cruda, pecorino di fossa grattugiato, pepe nero schiacciato al mortaio e un’aggiunta calibrata d’acqua: null’altro. Nessuna mantecatura finale, nessuna concessione all’illusionismo tecnico. È il tempo, lento e invisibile, a fare il lavoro dello chef: la pasta cuoce a bassa temperatura nella vescica chiusa, dove l’umidità e il grasso naturale del contenitore ammorbidiscono gli amidi, avvolgono gli spigoli del pecorino, arrotondano la speziatura.
Il risultato, servito con un gesto quasi sacrale, è una pasta che conserva la sua anima rustica ma la sublima in eleganza: setosa, intensa, carnale. La cremosità non è emulsione ma fermento. Il pepe non brucia, persuade. Il formaggio non copre, nutre. È un piatto che non parla di Roma ma del mondo, di un passato prelinguistico dove cibo e sopravvivenza coincidevano, e dove il cuoco era ancora un alchimista.
Nel panorama della cucina italiana contemporanea, la Cacio e Pepe in vescica è uno dei pochi piatti davvero iconici. Non tanto per la sua forma, quanto per la sua filosofia: un pensiero che si fa alimento, un’archeologia del gusto piegata alla ricerca, un omaggio al potere simbolico della cottura.
Non è solo un piatto, ma un atto rituale. Un gesto ancestrale travestito da alta cucina. Nella Cacio e Pepe in vescica di Riccardo Camanini — patron e demiurgo del ristorante Lido 84, affacciato sulle sponde del Garda — si compie una trasfigurazione arcaica e insieme visionaria della romanissima triade: pasta, pecorino, pepe.
Il recipiente non è un piatto ma una vescica di maiale gonfiata e legata, come usavano i contadini di un tempo per conservare e trasportare i formaggi molli. Camanini la riscopre e la reinterpreta come involucro di cottura, affidando alla sua porosità, alla sua memoria animale, la funzione di mediatrice fra la materia e il fuoco. All’interno, vermicelli di pasta cruda, pecorino di fossa grattugiato, pepe nero schiacciato al mortaio e un’aggiunta calibrata d’acqua: null’altro. Nessuna mantecatura finale, nessuna concessione all’illusionismo tecnico. È il tempo, lento e invisibile, a fare il lavoro dello chef: la pasta cuoce a bassa temperatura nella vescica chiusa, dove l’umidità e il grasso naturale del contenitore ammorbidiscono gli amidi, avvolgono gli spigoli del pecorino, arrotondano la speziatura.
Il risultato, servito con un gesto quasi sacrale, è una pasta che conserva la sua anima rustica ma la sublima in eleganza: setosa, intensa, carnale. La cremosità non è emulsione ma fermento. Il pepe non brucia, persuade. Il formaggio non copre, nutre. È un piatto che non parla di Roma ma del mondo, di un passato prelinguistico dove cibo e sopravvivenza coincidevano, e dove il cuoco era ancora un alchimista.
Nel panorama della cucina italiana contemporanea, la Cacio e Pepe in vescica è uno dei pochi piatti davvero iconici. Non tanto per la sua forma, quanto per la sua filosofia: un pensiero che si fa alimento, un’archeologia del gusto piegata alla ricerca, un omaggio al potere simbolico della cottura.