
L’INGANNO DORATO DEI GRANI ANTICHI
30 mar 2025

L’INGANNO DORATO DEI GRANI ANTICHI
30 mar 2025

L’INGANNO DORATO DEI GRANI ANTICHI
30 mar 2025
I grani antichi sono diventati un simbolo di purezza e autenticità, un vessillo della riscoperta gastronomica, una risposta nostalgica a un mondo agricolo over-industrializzato. Vengono trasmessi come reliquie di un passato incontaminato, come chicchi sfuggiti al tempo e riscoperti in sacri granai abbandonati. Ma è davvero così?
La narrazione dei grani antichi si regge su un paradosso. Da un lato, si esaltano per la loro integrità genetica, perché non sono stati manipolati come i grani moderni, selezionati per la resa e la resistenza. Dall’altro, pochi di questi grani sono realmente “antichi” nel senso storico del termine. Il Senatore Cappelli, l’étoile indiscussa della panificazione e della pasta di nicchia, è un’invenzione del primo Novecento, frutto di selezioni operate dal genetista Nazareno Strampelli. Altri, come il Timilia o il Saragolla, vantano effettivamente radici più profonde, legate a varietà mediterranee di epoche remote, ma la loro coltivazione non è mai stata così capillare come si tende a far credere oggidì.
Eppure, nonostante il racconto a volte sovrastimato, i grani antichi hanno un valore innegabile. Sono più biodiversi, più adattabili a un’agricoltura meno invasiva e forzata, spesso meno bisognosi di pesticidi e fertilizzanti chimici. La loro struttura proteica rende il glutine più morbido e digeribile, aspetto non trascurabile per chi soffre di sensibilità ai grani moderni. Il loro profilo aromatico è spesso più ricco, intenso, lontano dall’uniformità delle farine industriali.
Ma la vera domanda è: siamo sicuri che siano sempre migliori? Se da un lato offrono un’alternativa più sostenibile e meno standardizzata, dall’altro la resa bassa e i costi di produzione elevati li rendono un prodotto di lusso, destinato a una nicchia di consumatori disposti a pagare il prezzo dell’autenticità. È un prodotto di qualità, senza dubbio, ma è anche un fenomeno spinto dal marketing, che spesso romanticizza, ed è comprensibile, la realtà agricola.
Dunque la verità, come suggerivano i nostri avi e spesso accade, sta nel mezzo: sono un’ottima alternativa ai grani iper selezionati e industrializzati, ma vanno compresi, apprezzati e valutati per ciò che realmente sono, senza cedere totalmente alla seduzione di racconti densi di derive bucoliche che poco hanno a che fare con la complessità effettiva della loro storia.
I grani antichi sono diventati un simbolo di purezza e autenticità, un vessillo della riscoperta gastronomica, una risposta nostalgica a un mondo agricolo over-industrializzato. Vengono trasmessi come reliquie di un passato incontaminato, come chicchi sfuggiti al tempo e riscoperti in sacri granai abbandonati. Ma è davvero così?
La narrazione dei grani antichi si regge su un paradosso. Da un lato, si esaltano per la loro integrità genetica, perché non sono stati manipolati come i grani moderni, selezionati per la resa e la resistenza. Dall’altro, pochi di questi grani sono realmente “antichi” nel senso storico del termine. Il Senatore Cappelli, l’étoile indiscussa della panificazione e della pasta di nicchia, è un’invenzione del primo Novecento, frutto di selezioni operate dal genetista Nazareno Strampelli. Altri, come il Timilia o il Saragolla, vantano effettivamente radici più profonde, legate a varietà mediterranee di epoche remote, ma la loro coltivazione non è mai stata così capillare come si tende a far credere oggidì.
Eppure, nonostante il racconto a volte sovrastimato, i grani antichi hanno un valore innegabile. Sono più biodiversi, più adattabili a un’agricoltura meno invasiva e forzata, spesso meno bisognosi di pesticidi e fertilizzanti chimici. La loro struttura proteica rende il glutine più morbido e digeribile, aspetto non trascurabile per chi soffre di sensibilità ai grani moderni. Il loro profilo aromatico è spesso più ricco, intenso, lontano dall’uniformità delle farine industriali.
Ma la vera domanda è: siamo sicuri che siano sempre migliori? Se da un lato offrono un’alternativa più sostenibile e meno standardizzata, dall’altro la resa bassa e i costi di produzione elevati li rendono un prodotto di lusso, destinato a una nicchia di consumatori disposti a pagare il prezzo dell’autenticità. È un prodotto di qualità, senza dubbio, ma è anche un fenomeno spinto dal marketing, che spesso romanticizza, ed è comprensibile, la realtà agricola.
Dunque la verità, come suggerivano i nostri avi e spesso accade, sta nel mezzo: sono un’ottima alternativa ai grani iper selezionati e industrializzati, ma vanno compresi, apprezzati e valutati per ciò che realmente sono, senza cedere totalmente alla seduzione di racconti densi di derive bucoliche che poco hanno a che fare con la complessità effettiva della loro storia.
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I grani antichi sono diventati un simbolo di purezza e autenticità, un vessillo della riscoperta gastronomica, una risposta nostalgica a un mondo agricolo over-industrializzato. Vengono trasmessi come reliquie di un passato incontaminato, come chicchi sfuggiti al tempo e riscoperti in sacri granai abbandonati. Ma è davvero così?
La narrazione dei grani antichi si regge su un paradosso. Da un lato, si esaltano per la loro integrità genetica, perché non sono stati manipolati come i grani moderni, selezionati per la resa e la resistenza. Dall’altro, pochi di questi grani sono realmente “antichi” nel senso storico del termine. Il Senatore Cappelli, l’étoile indiscussa della panificazione e della pasta di nicchia, è un’invenzione del primo Novecento, frutto di selezioni operate dal genetista Nazareno Strampelli. Altri, come il Timilia o il Saragolla, vantano effettivamente radici più profonde, legate a varietà mediterranee di epoche remote, ma la loro coltivazione non è mai stata così capillare come si tende a far credere oggidì.
Eppure, nonostante il racconto a volte sovrastimato, i grani antichi hanno un valore innegabile. Sono più biodiversi, più adattabili a un’agricoltura meno invasiva e forzata, spesso meno bisognosi di pesticidi e fertilizzanti chimici. La loro struttura proteica rende il glutine più morbido e digeribile, aspetto non trascurabile per chi soffre di sensibilità ai grani moderni. Il loro profilo aromatico è spesso più ricco, intenso, lontano dall’uniformità delle farine industriali.
Ma la vera domanda è: siamo sicuri che siano sempre migliori? Se da un lato offrono un’alternativa più sostenibile e meno standardizzata, dall’altro la resa bassa e i costi di produzione elevati li rendono un prodotto di lusso, destinato a una nicchia di consumatori disposti a pagare il prezzo dell’autenticità. È un prodotto di qualità, senza dubbio, ma è anche un fenomeno spinto dal marketing, che spesso romanticizza, ed è comprensibile, la realtà agricola.
Dunque la verità, come suggerivano i nostri avi e spesso accade, sta nel mezzo: sono un’ottima alternativa ai grani iper selezionati e industrializzati, ma vanno compresi, apprezzati e valutati per ciò che realmente sono, senza cedere totalmente alla seduzione di racconti densi di derive bucoliche che poco hanno a che fare con la complessità effettiva della loro storia.



