LA PASTA ALL’ESTERO

mito, stupro e redenzione

18 mag 2025

LA PASTA ALL’ESTERO

mito, stupro e redenzione

18 mag 2025

LA PASTA ALL’ESTERO

mito, stupro e redenzione

18 mag 2025

La pasta, fuori dall’Italia, è come un’esule di alta scuola: molte volte amata, certe travisata, altre, addirittura violentata. È l’ambasciatrice inconsapevole di un’identità che spesso non le appartiene più, un pezzo d’Italinità adattato al gusto locale, piegato alle logiche del mercato, reinventato da mani che non sempre ne intendono l’essenza.

Negli Stati Uniti, per esempio, la pasta è più un’astrazione che una tradizione: vedi gli spaghetti oversize annegati in una quantità abnorme di salsa marinara, le fettuccine ‘Alfredo’ che in Italia sono una leggenda metropolitana completamente inusitata, e i piatti stracolmi di formaggio fuso che trasudano un’abbondanza sguaiata del tutto estranea alla nostra cucina. Non è una questione di autenticità, ma di percezione: per molti americani, la pasta è un comfort food ipercalorico, un pasto familiare e rassicurante, qualcosa da ingollare a cucchiaiate, più che da gustare.

In Francia, invece, la pasta è trattata con più rispetto, ma anche con una certa sufficienza. È considerata una base, mai come una protagonista: è un contorno per piatti elaborati, spesso arricchita da intingoli pesanti e densi di aglio che ne soffocano la leggerezza. Se in Italia la pasta è Regina, in Francia è una dama di compagnia, un accompagnamento per qualcosa di più “nobile”.

Nei paesi asiatici, la pasta vive una doppia vita: a volte è un’imitazione maldestra di sé stessa, altre volte una fusione geniale. Il Giappone, come abbiamo dissertato, ha fatto sua la carbonara, ma spesso ’ha reinterpretata con panna e bacon croccante, creando un’ibridazione che fa storcere il naso ai puristi e sorridere i curiosi tolleranti. In Cina, invece, la pasta è spesso confusa con i noodles, e non di rado viene saltata nel wok, tradendo le sue origini ma guadagnando una nuova identità.

Poi c’è l’Inghilterra, dove la pasta è trattata con una spensieratezza quasi brutale: gli spaghetti sono quasi sempre scotti e poi affogati in lattine di pomodoro concentrato e zuccherato, poi vengono serviti i piatti “italiani” che di italiano hanno solo il nome scritto sul menu, le lasagne, surgelate, sembrano scampoli di esperimenti di laboratorio. Eppure, in tutto questo bailamme, ci sono luoghi in cui qualcosa resiste: i ristoranti di qualità, i mercati gourmet, nella crescente tropismo per l’autenticità.

Poi, allelluia, la pasta sopravvive sempre. Viene maltrattata, sì, ma anche amata, celebrata, cercata. E come ogni emigrato di successo, si adatta senza perdere del tutto la sua identità. Forse è proprio questa la sua forza: può essere stravolta sì, ma mai dimenticata.

La pasta, fuori dall’Italia, è come un’esule di alta scuola: molte volte amata, certe travisata, altre, addirittura violentata. È l’ambasciatrice inconsapevole di un’identità che spesso non le appartiene più, un pezzo d’Italinità adattato al gusto locale, piegato alle logiche del mercato, reinventato da mani che non sempre ne intendono l’essenza.

Negli Stati Uniti, per esempio, la pasta è più un’astrazione che una tradizione: vedi gli spaghetti oversize annegati in una quantità abnorme di salsa marinara, le fettuccine ‘Alfredo’ che in Italia sono una leggenda metropolitana completamente inusitata, e i piatti stracolmi di formaggio fuso che trasudano un’abbondanza sguaiata del tutto estranea alla nostra cucina. Non è una questione di autenticità, ma di percezione: per molti americani, la pasta è un comfort food ipercalorico, un pasto familiare e rassicurante, qualcosa da ingollare a cucchiaiate, più che da gustare.

In Francia, invece, la pasta è trattata con più rispetto, ma anche con una certa sufficienza. È considerata una base, mai come una protagonista: è un contorno per piatti elaborati, spesso arricchita da intingoli pesanti e densi di aglio che ne soffocano la leggerezza. Se in Italia la pasta è Regina, in Francia è una dama di compagnia, un accompagnamento per qualcosa di più “nobile”.

Nei paesi asiatici, la pasta vive una doppia vita: a volte è un’imitazione maldestra di sé stessa, altre volte una fusione geniale. Il Giappone, come abbiamo dissertato, ha fatto sua la carbonara, ma spesso ’ha reinterpretata con panna e bacon croccante, creando un’ibridazione che fa storcere il naso ai puristi e sorridere i curiosi tolleranti. In Cina, invece, la pasta è spesso confusa con i noodles, e non di rado viene saltata nel wok, tradendo le sue origini ma guadagnando una nuova identità.

Poi c’è l’Inghilterra, dove la pasta è trattata con una spensieratezza quasi brutale: gli spaghetti sono quasi sempre scotti e poi affogati in lattine di pomodoro concentrato e zuccherato, poi vengono serviti i piatti “italiani” che di italiano hanno solo il nome scritto sul menu, le lasagne, surgelate, sembrano scampoli di esperimenti di laboratorio. Eppure, in tutto questo bailamme, ci sono luoghi in cui qualcosa resiste: i ristoranti di qualità, i mercati gourmet, nella crescente tropismo per l’autenticità.

Poi, allelluia, la pasta sopravvive sempre. Viene maltrattata, sì, ma anche amata, celebrata, cercata. E come ogni emigrato di successo, si adatta senza perdere del tutto la sua identità. Forse è proprio questa la sua forza: può essere stravolta sì, ma mai dimenticata.

La pasta, fuori dall’Italia, è come un’esule di alta scuola: molte volte amata, certe travisata, altre, addirittura violentata. È l’ambasciatrice inconsapevole di un’identità che spesso non le appartiene più, un pezzo d’Italinità adattato al gusto locale, piegato alle logiche del mercato, reinventato da mani che non sempre ne intendono l’essenza.

Negli Stati Uniti, per esempio, la pasta è più un’astrazione che una tradizione: vedi gli spaghetti oversize annegati in una quantità abnorme di salsa marinara, le fettuccine ‘Alfredo’ che in Italia sono una leggenda metropolitana completamente inusitata, e i piatti stracolmi di formaggio fuso che trasudano un’abbondanza sguaiata del tutto estranea alla nostra cucina. Non è una questione di autenticità, ma di percezione: per molti americani, la pasta è un comfort food ipercalorico, un pasto familiare e rassicurante, qualcosa da ingollare a cucchiaiate, più che da gustare.

In Francia, invece, la pasta è trattata con più rispetto, ma anche con una certa sufficienza. È considerata una base, mai come una protagonista: è un contorno per piatti elaborati, spesso arricchita da intingoli pesanti e densi di aglio che ne soffocano la leggerezza. Se in Italia la pasta è Regina, in Francia è una dama di compagnia, un accompagnamento per qualcosa di più “nobile”.

Nei paesi asiatici, la pasta vive una doppia vita: a volte è un’imitazione maldestra di sé stessa, altre volte una fusione geniale. Il Giappone, come abbiamo dissertato, ha fatto sua la carbonara, ma spesso ’ha reinterpretata con panna e bacon croccante, creando un’ibridazione che fa storcere il naso ai puristi e sorridere i curiosi tolleranti. In Cina, invece, la pasta è spesso confusa con i noodles, e non di rado viene saltata nel wok, tradendo le sue origini ma guadagnando una nuova identità.

Poi c’è l’Inghilterra, dove la pasta è trattata con una spensieratezza quasi brutale: gli spaghetti sono quasi sempre scotti e poi affogati in lattine di pomodoro concentrato e zuccherato, poi vengono serviti i piatti “italiani” che di italiano hanno solo il nome scritto sul menu, le lasagne, surgelate, sembrano scampoli di esperimenti di laboratorio. Eppure, in tutto questo bailamme, ci sono luoghi in cui qualcosa resiste: i ristoranti di qualità, i mercati gourmet, nella crescente tropismo per l’autenticità.

Poi, allelluia, la pasta sopravvive sempre. Viene maltrattata, sì, ma anche amata, celebrata, cercata. E come ogni emigrato di successo, si adatta senza perdere del tutto la sua identità. Forse è proprio questa la sua forza: può essere stravolta sì, ma mai dimenticata.