
LETTERATURA AL DENTE
la pasta nella scrittura italiana tra realismo, simbolo e memoria
22 lug 2025

LETTERATURA AL DENTE
la pasta nella scrittura italiana tra realismo, simbolo e memoria
22 lug 2025

LETTERATURA AL DENTE
la pasta nella scrittura italiana tra realismo, simbolo e memoria
22 lug 2025
parte prima
Nella letteratura verista e naturalista di fine Ottocento, la pasta assume un ruolo di spia sociale, segnalando condizioni di povertà o benessere. In Giovanni Verga, per esempio, l’assenza o scarsità di pasta è già segno di deprivazione materiale. Nel romanzo I Malavoglia (1881), i personaggi sognano una vita migliore identificandola con il poter “mangiare pasta e carne tutti i giorni” – un lusso impensabile nella loro quotidianità di stenti. Una semplice scodella di pasta, se condivisa o negata, diventa così metafora di destino familiare, perdita e dignità. Luigi Capuana, ideologo del Verismo e Matilde Serao, scrittrice coraggiosa e ‘voce’ del popolo partenopeo, inseriscono anch’essi la pasta nell’inventario simbolico della miseria urbana e rurale. Nel suo reportage Il ventre di Napoli (1884), Matilde Serao descrive con acume scene di estrema povertà, come bambini che si dividono un misero pasto di strada, usando il cibo come lente etico-morale per evidenziare le ingiustizie sociali.
In quelle pagine, una scodella di maccheroni al pomodoro – acquistata appena la povera gente racimola due soldi – rappresenta quasi un rito di sopravvivenza quotidiana. Spesso si tratta di pasta di qualità infima, il raccogliticcio di diversi formati chiamato emblematicamente “monnezzaglia” (spazzatura), appena condito con un po’ di salsa e formaggio. Questi dettagli realistici sottolineano come il cibo semplice – la pasta, in questo caso – diventi allegoria tangibile della linea labile tra la dignitosa lotta per sfamarsi e la miseria più cupa.
Nel primo Novecento, con l’avvento del modernismo e del romanzo sperimentale, la pasta perde la sua sola dimensione realistica per caricarsi di valenze stilizzate e ambivalenti. In Carlo Emilio Gadda, specialmente nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (pubblicato in volume nel 1957 ma iniziato negli anni ’40), l’elemento culinario diventa chiave di lettura del caos socio-linguistico dell’Italia. Gadda infatti adotta una “lingua pasticciata”, mescolando dialetti, registri e idiomi come fossero vari ingredienti di un unico impasto letterario. La cucina domestica, con i suoi sughi che faticosamente tengono insieme i rigatoni, diventa metafora della condizione nazionale: un amalgama precario di lingue, tensioni sociali, desideri insoddisfatti e illusioni perdute. Nel mondo disgregato della prosa gaddiana, il lessico culinario serve paradossalmente a tenere insieme il caos narrativo – proprio come un sugo denso tiene insieme la pasta – e l’ironia barocca dell’autore trasforma la materia viscerale del cibo in stile letterario. In Gadda la cucina è mera nevrosi, è l’horror vacui dell’ansia borghese e del disordine repressivo, e la pasta, col suo richiamo al mescolamento, assurge a correlativo oggettivo dell’intruglio caotico che è l’Italia del Novecento.
parte prima
Nella letteratura verista e naturalista di fine Ottocento, la pasta assume un ruolo di spia sociale, segnalando condizioni di povertà o benessere. In Giovanni Verga, per esempio, l’assenza o scarsità di pasta è già segno di deprivazione materiale. Nel romanzo I Malavoglia (1881), i personaggi sognano una vita migliore identificandola con il poter “mangiare pasta e carne tutti i giorni” – un lusso impensabile nella loro quotidianità di stenti. Una semplice scodella di pasta, se condivisa o negata, diventa così metafora di destino familiare, perdita e dignità. Luigi Capuana, ideologo del Verismo e Matilde Serao, scrittrice coraggiosa e ‘voce’ del popolo partenopeo, inseriscono anch’essi la pasta nell’inventario simbolico della miseria urbana e rurale. Nel suo reportage Il ventre di Napoli (1884), Matilde Serao descrive con acume scene di estrema povertà, come bambini che si dividono un misero pasto di strada, usando il cibo come lente etico-morale per evidenziare le ingiustizie sociali.
In quelle pagine, una scodella di maccheroni al pomodoro – acquistata appena la povera gente racimola due soldi – rappresenta quasi un rito di sopravvivenza quotidiana. Spesso si tratta di pasta di qualità infima, il raccogliticcio di diversi formati chiamato emblematicamente “monnezzaglia” (spazzatura), appena condito con un po’ di salsa e formaggio. Questi dettagli realistici sottolineano come il cibo semplice – la pasta, in questo caso – diventi allegoria tangibile della linea labile tra la dignitosa lotta per sfamarsi e la miseria più cupa.
Nel primo Novecento, con l’avvento del modernismo e del romanzo sperimentale, la pasta perde la sua sola dimensione realistica per caricarsi di valenze stilizzate e ambivalenti. In Carlo Emilio Gadda, specialmente nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (pubblicato in volume nel 1957 ma iniziato negli anni ’40), l’elemento culinario diventa chiave di lettura del caos socio-linguistico dell’Italia. Gadda infatti adotta una “lingua pasticciata”, mescolando dialetti, registri e idiomi come fossero vari ingredienti di un unico impasto letterario. La cucina domestica, con i suoi sughi che faticosamente tengono insieme i rigatoni, diventa metafora della condizione nazionale: un amalgama precario di lingue, tensioni sociali, desideri insoddisfatti e illusioni perdute. Nel mondo disgregato della prosa gaddiana, il lessico culinario serve paradossalmente a tenere insieme il caos narrativo – proprio come un sugo denso tiene insieme la pasta – e l’ironia barocca dell’autore trasforma la materia viscerale del cibo in stile letterario. In Gadda la cucina è mera nevrosi, è l’horror vacui dell’ansia borghese e del disordine repressivo, e la pasta, col suo richiamo al mescolamento, assurge a correlativo oggettivo dell’intruglio caotico che è l’Italia del Novecento.
parte prima
Nella letteratura verista e naturalista di fine Ottocento, la pasta assume un ruolo di spia sociale, segnalando condizioni di povertà o benessere. In Giovanni Verga, per esempio, l’assenza o scarsità di pasta è già segno di deprivazione materiale. Nel romanzo I Malavoglia (1881), i personaggi sognano una vita migliore identificandola con il poter “mangiare pasta e carne tutti i giorni” – un lusso impensabile nella loro quotidianità di stenti. Una semplice scodella di pasta, se condivisa o negata, diventa così metafora di destino familiare, perdita e dignità. Luigi Capuana, ideologo del Verismo e Matilde Serao, scrittrice coraggiosa e ‘voce’ del popolo partenopeo, inseriscono anch’essi la pasta nell’inventario simbolico della miseria urbana e rurale. Nel suo reportage Il ventre di Napoli (1884), Matilde Serao descrive con acume scene di estrema povertà, come bambini che si dividono un misero pasto di strada, usando il cibo come lente etico-morale per evidenziare le ingiustizie sociali.
In quelle pagine, una scodella di maccheroni al pomodoro – acquistata appena la povera gente racimola due soldi – rappresenta quasi un rito di sopravvivenza quotidiana. Spesso si tratta di pasta di qualità infima, il raccogliticcio di diversi formati chiamato emblematicamente “monnezzaglia” (spazzatura), appena condito con un po’ di salsa e formaggio. Questi dettagli realistici sottolineano come il cibo semplice – la pasta, in questo caso – diventi allegoria tangibile della linea labile tra la dignitosa lotta per sfamarsi e la miseria più cupa.
Nel primo Novecento, con l’avvento del modernismo e del romanzo sperimentale, la pasta perde la sua sola dimensione realistica per caricarsi di valenze stilizzate e ambivalenti. In Carlo Emilio Gadda, specialmente nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (pubblicato in volume nel 1957 ma iniziato negli anni ’40), l’elemento culinario diventa chiave di lettura del caos socio-linguistico dell’Italia. Gadda infatti adotta una “lingua pasticciata”, mescolando dialetti, registri e idiomi come fossero vari ingredienti di un unico impasto letterario. La cucina domestica, con i suoi sughi che faticosamente tengono insieme i rigatoni, diventa metafora della condizione nazionale: un amalgama precario di lingue, tensioni sociali, desideri insoddisfatti e illusioni perdute. Nel mondo disgregato della prosa gaddiana, il lessico culinario serve paradossalmente a tenere insieme il caos narrativo – proprio come un sugo denso tiene insieme la pasta – e l’ironia barocca dell’autore trasforma la materia viscerale del cibo in stile letterario. In Gadda la cucina è mera nevrosi, è l’horror vacui dell’ansia borghese e del disordine repressivo, e la pasta, col suo richiamo al mescolamento, assurge a correlativo oggettivo dell’intruglio caotico che è l’Italia del Novecento.