LETTURATURA AL DENTE

La pasta come dispositivo mnemonico e affettivo nella letteratura del Novecento

21 lug 2025

LETTURATURA AL DENTE

La pasta come dispositivo mnemonico e affettivo nella letteratura del Novecento

21 lug 2025

LETTURATURA AL DENTE

La pasta come dispositivo mnemonico e affettivo nella letteratura del Novecento

21 lug 2025

PARTE SECONDA

Nel secondo Novecento numerosi scrittori italiani trasformano il cibo – in particolare la pasta – in un potente veicolo di memoria personale e collettiva. Nelle loro opere, ambientate perlopiù nell’Italia del dopoguerra, il pasto diventa un rituale affettivo, un linguaggio del corpo e un’architettura sentimentale della memoria familiare. Il semplice piatto di pasta richiama con forza l’infanzia, la casa materna e un’epoca preconsumistica, fatta di affetti semplici e di comunità unite attorno alla tavola. Di seguito vediamo come Elena Ferrante, Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini hanno affidato alla pasta e al cibo povero questo ruolo simbolico nelle loro opere letterarie.

Nei romanzi della quadrilogia L’amica geniale (2011) di Elena Ferrante, ambientati a Napoli negli anni ’50, la cucina tradizionale partenopea è onnipresente e funge da collante tra generazioni e personaggi. Il cibo evoca calore domestico e continuità culturale: emblematici sono la “pasta e patate azzeccata” (bella densa) preparata dalla madre della giovane Elena (Lenù) e il suo squisito ‘gattò’ di patate.

Queste ricette di cucina povera rappresentano i sapori dell’infanzia e legano indissolubilmente le protagoniste al loro rione e alla famiglia. La mamma di Lenù è rinomata come cuoca eccellente, e attraverso i suoi piatti casalinghi, Ferrante richiama un’Italia genuina, in cui i gesti tradizionali – spesso femminili – di fare la pasta a mano e di cucinare pietanze semplici diventano un linguaggio d’amore materno e di amicizia. Non a caso, momenti fondamentali del romanzo sono accompagnati dal cibo: dalle scene in cui Lenù e l’amica Lila gustano la pasta e patate o la pizza, fino alle loro golose passeggiate per comprare le sfogliatelle ricce dal pasticciere Solara.

 Il cibo, quindi, non è sullo sfondo ma al centro della memoria: i profumi e sapori della cucina di casa rinsaldano i legami affettivi e fissano i ricordi di un’epoca familiare semplice e autentica.

Nel romanzo La Storia (1974) di Elsa Morante, ambientato negli anni tragici della Seconda guerra mondiale, il tema della fame è centrale. In un contesto di privazioni estreme, anche il più umile cibo caldo diventa un baluardo di civiltà in mezzo alla barbarie bellica. Celebre è la scena in cui Ida, la protagonista – una maestra vedova, mite e indifesa – riesce a procurarsi di nascosto un uovo durante l’occupazione nazista a Roma. Per la donna affamata, quell’uovo rubato appare come “un enorme diamante ovale” che la ringiovanisce, donandole “una sensazione inaudita di freschezza”.

In queste metafore luminose si concretizza l’inedita speranza che un semplice alimento può portare nel buio della guerra. Con questo episodio, la Morante ci consegna lo “scandalo della fame” e al contempo suggerisce che anche un cibo poverissimo può assumere un valore spirituale quasi sacrale. Il nutrimento diventa simbolo di umanità: la piccola razione, condivisa o conquistata a fatica, distingue la luce della solidarietà umana dall’ombra della barbarie circostante. In La Storia, quindi, la pasta, il pane o un uovo non sono mai semplici comparse, ma veicoli di significato: rappresentano la dignità dei vinti e la memoria di tempi di carestia in cui ogni boccone era vita e speranza.

Un semplice piatto di pasta al pomodoro – come quelli consumati nelle borgate romane o nelle osterie friulane – diventa nelle opere di Pasolini simbolo di comunità e calore condiviso.

Nell’universo poetico e narrativo di Pier Paolo Pasolini, il cibo umile (pane, pasta, vino) è investito di un’aura di autenticità e sacralità popolare. Pasolini spesso contrappone l’arcaica genuinità del mondo contadino e sottoproletario alla moderna alienazione consumistica del dopoguerra. Nei suoi primi scritti e film, ambientati tra le campagne friulane e le periferie romane, emergono scene in cui il rito di mangiare insieme un piatto di pasta al pomodoro o di dividere pane e vino rappresenta l’unità di una comunità povera ma coesa. In romanzi come Il sogno di una cosa (1962), ambientato nel Friuli rurale, Pasolini dà voce a un mondo contadino “fortemente legato ai suoi valori arcaici”, in cui la famiglia, le feste religiose e il cibo costituiscono i pilastri della vita comunitaria

Il cibo semplice della campagna – preparato con ritualità attorno al focolare domestico – scandisce il tempo quotidiano e si intreccia alle vicende dei personaggi, facendosi portatore di significati sociali e affettivi

Anche nei film pasoliniani ambientati nelle borgate di Roma (Accattone, Mamma Roma), i pasti frugali consumati insieme dai protagonisti evocano una calda dimensione comunitaria e quasi sacra, in netto contrasto con l’omologazione e il vuoto spirituale dell’Italia del boom economico. Il sapore della pasta al pomodoro o del vino genuino diventa così per Pasolini un frammento di autenticità perduta: un simbolo di quel mondo popolare e arcaico spazzato via dalla modernità, ma vivo nella nostalgia e nella memoria collettiva che l’autore trasmette attraverso le sue pagine e i suoi fotogrammi

PARTE SECONDA

Nel secondo Novecento numerosi scrittori italiani trasformano il cibo – in particolare la pasta – in un potente veicolo di memoria personale e collettiva. Nelle loro opere, ambientate perlopiù nell’Italia del dopoguerra, il pasto diventa un rituale affettivo, un linguaggio del corpo e un’architettura sentimentale della memoria familiare. Il semplice piatto di pasta richiama con forza l’infanzia, la casa materna e un’epoca preconsumistica, fatta di affetti semplici e di comunità unite attorno alla tavola. Di seguito vediamo come Elena Ferrante, Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini hanno affidato alla pasta e al cibo povero questo ruolo simbolico nelle loro opere letterarie.

Nei romanzi della quadrilogia L’amica geniale (2011) di Elena Ferrante, ambientati a Napoli negli anni ’50, la cucina tradizionale partenopea è onnipresente e funge da collante tra generazioni e personaggi. Il cibo evoca calore domestico e continuità culturale: emblematici sono la “pasta e patate azzeccata” (bella densa) preparata dalla madre della giovane Elena (Lenù) e il suo squisito ‘gattò’ di patate.

Queste ricette di cucina povera rappresentano i sapori dell’infanzia e legano indissolubilmente le protagoniste al loro rione e alla famiglia. La mamma di Lenù è rinomata come cuoca eccellente, e attraverso i suoi piatti casalinghi, Ferrante richiama un’Italia genuina, in cui i gesti tradizionali – spesso femminili – di fare la pasta a mano e di cucinare pietanze semplici diventano un linguaggio d’amore materno e di amicizia. Non a caso, momenti fondamentali del romanzo sono accompagnati dal cibo: dalle scene in cui Lenù e l’amica Lila gustano la pasta e patate o la pizza, fino alle loro golose passeggiate per comprare le sfogliatelle ricce dal pasticciere Solara.

 Il cibo, quindi, non è sullo sfondo ma al centro della memoria: i profumi e sapori della cucina di casa rinsaldano i legami affettivi e fissano i ricordi di un’epoca familiare semplice e autentica.

Nel romanzo La Storia (1974) di Elsa Morante, ambientato negli anni tragici della Seconda guerra mondiale, il tema della fame è centrale. In un contesto di privazioni estreme, anche il più umile cibo caldo diventa un baluardo di civiltà in mezzo alla barbarie bellica. Celebre è la scena in cui Ida, la protagonista – una maestra vedova, mite e indifesa – riesce a procurarsi di nascosto un uovo durante l’occupazione nazista a Roma. Per la donna affamata, quell’uovo rubato appare come “un enorme diamante ovale” che la ringiovanisce, donandole “una sensazione inaudita di freschezza”.

In queste metafore luminose si concretizza l’inedita speranza che un semplice alimento può portare nel buio della guerra. Con questo episodio, la Morante ci consegna lo “scandalo della fame” e al contempo suggerisce che anche un cibo poverissimo può assumere un valore spirituale quasi sacrale. Il nutrimento diventa simbolo di umanità: la piccola razione, condivisa o conquistata a fatica, distingue la luce della solidarietà umana dall’ombra della barbarie circostante. In La Storia, quindi, la pasta, il pane o un uovo non sono mai semplici comparse, ma veicoli di significato: rappresentano la dignità dei vinti e la memoria di tempi di carestia in cui ogni boccone era vita e speranza.

Un semplice piatto di pasta al pomodoro – come quelli consumati nelle borgate romane o nelle osterie friulane – diventa nelle opere di Pasolini simbolo di comunità e calore condiviso.

Nell’universo poetico e narrativo di Pier Paolo Pasolini, il cibo umile (pane, pasta, vino) è investito di un’aura di autenticità e sacralità popolare. Pasolini spesso contrappone l’arcaica genuinità del mondo contadino e sottoproletario alla moderna alienazione consumistica del dopoguerra. Nei suoi primi scritti e film, ambientati tra le campagne friulane e le periferie romane, emergono scene in cui il rito di mangiare insieme un piatto di pasta al pomodoro o di dividere pane e vino rappresenta l’unità di una comunità povera ma coesa. In romanzi come Il sogno di una cosa (1962), ambientato nel Friuli rurale, Pasolini dà voce a un mondo contadino “fortemente legato ai suoi valori arcaici”, in cui la famiglia, le feste religiose e il cibo costituiscono i pilastri della vita comunitaria

Il cibo semplice della campagna – preparato con ritualità attorno al focolare domestico – scandisce il tempo quotidiano e si intreccia alle vicende dei personaggi, facendosi portatore di significati sociali e affettivi

Anche nei film pasoliniani ambientati nelle borgate di Roma (Accattone, Mamma Roma), i pasti frugali consumati insieme dai protagonisti evocano una calda dimensione comunitaria e quasi sacra, in netto contrasto con l’omologazione e il vuoto spirituale dell’Italia del boom economico. Il sapore della pasta al pomodoro o del vino genuino diventa così per Pasolini un frammento di autenticità perduta: un simbolo di quel mondo popolare e arcaico spazzato via dalla modernità, ma vivo nella nostalgia e nella memoria collettiva che l’autore trasmette attraverso le sue pagine e i suoi fotogrammi

PARTE SECONDA

Nel secondo Novecento numerosi scrittori italiani trasformano il cibo – in particolare la pasta – in un potente veicolo di memoria personale e collettiva. Nelle loro opere, ambientate perlopiù nell’Italia del dopoguerra, il pasto diventa un rituale affettivo, un linguaggio del corpo e un’architettura sentimentale della memoria familiare. Il semplice piatto di pasta richiama con forza l’infanzia, la casa materna e un’epoca preconsumistica, fatta di affetti semplici e di comunità unite attorno alla tavola. Di seguito vediamo come Elena Ferrante, Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini hanno affidato alla pasta e al cibo povero questo ruolo simbolico nelle loro opere letterarie.

Nei romanzi della quadrilogia L’amica geniale (2011) di Elena Ferrante, ambientati a Napoli negli anni ’50, la cucina tradizionale partenopea è onnipresente e funge da collante tra generazioni e personaggi. Il cibo evoca calore domestico e continuità culturale: emblematici sono la “pasta e patate azzeccata” (bella densa) preparata dalla madre della giovane Elena (Lenù) e il suo squisito ‘gattò’ di patate.

Queste ricette di cucina povera rappresentano i sapori dell’infanzia e legano indissolubilmente le protagoniste al loro rione e alla famiglia. La mamma di Lenù è rinomata come cuoca eccellente, e attraverso i suoi piatti casalinghi, Ferrante richiama un’Italia genuina, in cui i gesti tradizionali – spesso femminili – di fare la pasta a mano e di cucinare pietanze semplici diventano un linguaggio d’amore materno e di amicizia. Non a caso, momenti fondamentali del romanzo sono accompagnati dal cibo: dalle scene in cui Lenù e l’amica Lila gustano la pasta e patate o la pizza, fino alle loro golose passeggiate per comprare le sfogliatelle ricce dal pasticciere Solara.

 Il cibo, quindi, non è sullo sfondo ma al centro della memoria: i profumi e sapori della cucina di casa rinsaldano i legami affettivi e fissano i ricordi di un’epoca familiare semplice e autentica.

Nel romanzo La Storia (1974) di Elsa Morante, ambientato negli anni tragici della Seconda guerra mondiale, il tema della fame è centrale. In un contesto di privazioni estreme, anche il più umile cibo caldo diventa un baluardo di civiltà in mezzo alla barbarie bellica. Celebre è la scena in cui Ida, la protagonista – una maestra vedova, mite e indifesa – riesce a procurarsi di nascosto un uovo durante l’occupazione nazista a Roma. Per la donna affamata, quell’uovo rubato appare come “un enorme diamante ovale” che la ringiovanisce, donandole “una sensazione inaudita di freschezza”.

In queste metafore luminose si concretizza l’inedita speranza che un semplice alimento può portare nel buio della guerra. Con questo episodio, la Morante ci consegna lo “scandalo della fame” e al contempo suggerisce che anche un cibo poverissimo può assumere un valore spirituale quasi sacrale. Il nutrimento diventa simbolo di umanità: la piccola razione, condivisa o conquistata a fatica, distingue la luce della solidarietà umana dall’ombra della barbarie circostante. In La Storia, quindi, la pasta, il pane o un uovo non sono mai semplici comparse, ma veicoli di significato: rappresentano la dignità dei vinti e la memoria di tempi di carestia in cui ogni boccone era vita e speranza.

Un semplice piatto di pasta al pomodoro – come quelli consumati nelle borgate romane o nelle osterie friulane – diventa nelle opere di Pasolini simbolo di comunità e calore condiviso.

Nell’universo poetico e narrativo di Pier Paolo Pasolini, il cibo umile (pane, pasta, vino) è investito di un’aura di autenticità e sacralità popolare. Pasolini spesso contrappone l’arcaica genuinità del mondo contadino e sottoproletario alla moderna alienazione consumistica del dopoguerra. Nei suoi primi scritti e film, ambientati tra le campagne friulane e le periferie romane, emergono scene in cui il rito di mangiare insieme un piatto di pasta al pomodoro o di dividere pane e vino rappresenta l’unità di una comunità povera ma coesa. In romanzi come Il sogno di una cosa (1962), ambientato nel Friuli rurale, Pasolini dà voce a un mondo contadino “fortemente legato ai suoi valori arcaici”, in cui la famiglia, le feste religiose e il cibo costituiscono i pilastri della vita comunitaria

Il cibo semplice della campagna – preparato con ritualità attorno al focolare domestico – scandisce il tempo quotidiano e si intreccia alle vicende dei personaggi, facendosi portatore di significati sociali e affettivi

Anche nei film pasoliniani ambientati nelle borgate di Roma (Accattone, Mamma Roma), i pasti frugali consumati insieme dai protagonisti evocano una calda dimensione comunitaria e quasi sacra, in netto contrasto con l’omologazione e il vuoto spirituale dell’Italia del boom economico. Il sapore della pasta al pomodoro o del vino genuino diventa così per Pasolini un frammento di autenticità perduta: un simbolo di quel mondo popolare e arcaico spazzato via dalla modernità, ma vivo nella nostalgia e nella memoria collettiva che l’autore trasmette attraverso le sue pagine e i suoi fotogrammi