MACCHERONI E PENNELLI

La pasta nell’arte, tra fame, gesto e memoria

8 apr 2025

MACCHERONI E PENNELLI

La pasta nell’arte, tra fame, gesto e memoria

8 apr 2025

MACCHERONI E PENNELLI

La pasta nell’arte, tra fame, gesto e memoria

8 apr 2025

C’è un filo di pasta – lungo, irregolare, intriso di sugo e significato – che scorre tra le tele della storia dell’arte. Un filo che lega mani affamate e mani raffinate, popoli e pittori, fame e festa. La pasta non è mai stata soltanto cibo ma gesto, rito, rappresentazione; è un codice visivo capace di attraversare i secoli senza perdere il sapore della sua autenticità.

Nel Seicento, Matthias Stomer grida la fame nei tratti cupi e sinceri del suo “Mangiamaccheroni”. Le mani nodose affondate nel piatto, la bocca spalancata, lo sguardo rapace: è la pasta ridotta all’osso del suo significato primordiale. Non un piacere, ma un bisogno atavico, impellente fisiologica necessità. È l’urlo silenzioso di chi mangia non per gusto, ma per sopravvivenza. Una scena cruda, forse scomoda, e proprio per questo profondamente vera.

Un secolo dopo, Luca Giordano – figlio del barocco napoletano – sublima quel gesto quotidiano trasformandolo in festa. Nel suo “Mangiatore di pasta”, l’abbondanza trabocca, il piacere si fa spettacolo. Non c’è più solo la fame: c’è la gioia. La pasta viene mangiata con voluttà, con l’orgoglio di chi sa riconoscere la sacralità della semplicità. Il cibo diventa liturgia popolare, e la tavola un’ara domestica.

Giacomo Nani, maestro della natura morta, coglie invece la pasta nel suo stato più silenzioso, eppure più potente. In “Natura morta con piatto di maccheroni”, i maccheroni esondano dal piatto, sensualmente realistici. Un pezzo niveo di formaggio, posato sulla grattugia, attende di fondervisi. È un invito al tatto, all’olfatto, quasi un inganno per la vista: il quadro si immagina di gustarlo dove la pasta diviene promessa multisensoriale.

Poi il Novecento rompe gli schemi e reiventa il linguaggio. La Pop Art, con Andy Warhol e Mimmo Rotella, sottrae la pasta alla tavola per proiettarla nel mito. Non più maccheroni fumanti, ma icone da scaffale, confezioni patinate, barattoli ripetuti all’infinito. Il cibo diventa simbolo del consumo, dell’abitudine, della società. Eppure resta lì, intatto nella sua forma: testimone silenzioso di una rivoluzione visiva.

E infine c’è Renato Guttuso, pittore del vero e del vissuto. “L’uomo che mangia gli spaghetti” è un ritratto feroce e commovente dell’Italia che fu. Il piatto di pasta qui è scarno, ma ingollato con brama; la tovaglia è storta, malmessa, la luce quasi assente. Si mangia con fretta, con bisogno, con quella fame che non è solo dello stomaco, ma figlia dell'horror vacui dell’anima. È una scena domestica questa, che si fa manifesto: l’arte torna a raccontare la vita, senza infingimenti.

La pasta, dunque, è un gesto ancestrale, una grammatica visiva, un archivio culturale. È una lingua senza lemmi, un’arte senza cornici. Sta nei dipinti come sta nei nostri ricordi, nei lunghi e pigri pranzi della domenica come nelle tele da museo. È sostanza e simbolo, realtà e rappresentazione.

E forse proprio per questo – tra tutti i soggetti possibili – la pasta è rimasta, nel tempo, una delle immagini più potenti e autentiche. Perché sa raccontare molto: la fame e la festa, la miseria e l’identità, il rito e il bisogno. Sa farsi specchio e memoria. Sa essere arte.


C’è un filo di pasta – lungo, irregolare, intriso di sugo e significato – che scorre tra le tele della storia dell’arte. Un filo che lega mani affamate e mani raffinate, popoli e pittori, fame e festa. La pasta non è mai stata soltanto cibo ma gesto, rito, rappresentazione; è un codice visivo capace di attraversare i secoli senza perdere il sapore della sua autenticità.

Nel Seicento, Matthias Stomer grida la fame nei tratti cupi e sinceri del suo “Mangiamaccheroni”. Le mani nodose affondate nel piatto, la bocca spalancata, lo sguardo rapace: è la pasta ridotta all’osso del suo significato primordiale. Non un piacere, ma un bisogno atavico, impellente fisiologica necessità. È l’urlo silenzioso di chi mangia non per gusto, ma per sopravvivenza. Una scena cruda, forse scomoda, e proprio per questo profondamente vera.

Un secolo dopo, Luca Giordano – figlio del barocco napoletano – sublima quel gesto quotidiano trasformandolo in festa. Nel suo “Mangiatore di pasta”, l’abbondanza trabocca, il piacere si fa spettacolo. Non c’è più solo la fame: c’è la gioia. La pasta viene mangiata con voluttà, con l’orgoglio di chi sa riconoscere la sacralità della semplicità. Il cibo diventa liturgia popolare, e la tavola un’ara domestica.

Giacomo Nani, maestro della natura morta, coglie invece la pasta nel suo stato più silenzioso, eppure più potente. In “Natura morta con piatto di maccheroni”, i maccheroni esondano dal piatto, sensualmente realistici. Un pezzo niveo di formaggio, posato sulla grattugia, attende di fondervisi. È un invito al tatto, all’olfatto, quasi un inganno per la vista: il quadro si immagina di gustarlo dove la pasta diviene promessa multisensoriale.

Poi il Novecento rompe gli schemi e reiventa il linguaggio. La Pop Art, con Andy Warhol e Mimmo Rotella, sottrae la pasta alla tavola per proiettarla nel mito. Non più maccheroni fumanti, ma icone da scaffale, confezioni patinate, barattoli ripetuti all’infinito. Il cibo diventa simbolo del consumo, dell’abitudine, della società. Eppure resta lì, intatto nella sua forma: testimone silenzioso di una rivoluzione visiva.

E infine c’è Renato Guttuso, pittore del vero e del vissuto. “L’uomo che mangia gli spaghetti” è un ritratto feroce e commovente dell’Italia che fu. Il piatto di pasta qui è scarno, ma ingollato con brama; la tovaglia è storta, malmessa, la luce quasi assente. Si mangia con fretta, con bisogno, con quella fame che non è solo dello stomaco, ma figlia dell'horror vacui dell’anima. È una scena domestica questa, che si fa manifesto: l’arte torna a raccontare la vita, senza infingimenti.

La pasta, dunque, è un gesto ancestrale, una grammatica visiva, un archivio culturale. È una lingua senza lemmi, un’arte senza cornici. Sta nei dipinti come sta nei nostri ricordi, nei lunghi e pigri pranzi della domenica come nelle tele da museo. È sostanza e simbolo, realtà e rappresentazione.

E forse proprio per questo – tra tutti i soggetti possibili – la pasta è rimasta, nel tempo, una delle immagini più potenti e autentiche. Perché sa raccontare molto: la fame e la festa, la miseria e l’identità, il rito e il bisogno. Sa farsi specchio e memoria. Sa essere arte.


C’è un filo di pasta – lungo, irregolare, intriso di sugo e significato – che scorre tra le tele della storia dell’arte. Un filo che lega mani affamate e mani raffinate, popoli e pittori, fame e festa. La pasta non è mai stata soltanto cibo ma gesto, rito, rappresentazione; è un codice visivo capace di attraversare i secoli senza perdere il sapore della sua autenticità.

Nel Seicento, Matthias Stomer grida la fame nei tratti cupi e sinceri del suo “Mangiamaccheroni”. Le mani nodose affondate nel piatto, la bocca spalancata, lo sguardo rapace: è la pasta ridotta all’osso del suo significato primordiale. Non un piacere, ma un bisogno atavico, impellente fisiologica necessità. È l’urlo silenzioso di chi mangia non per gusto, ma per sopravvivenza. Una scena cruda, forse scomoda, e proprio per questo profondamente vera.

Un secolo dopo, Luca Giordano – figlio del barocco napoletano – sublima quel gesto quotidiano trasformandolo in festa. Nel suo “Mangiatore di pasta”, l’abbondanza trabocca, il piacere si fa spettacolo. Non c’è più solo la fame: c’è la gioia. La pasta viene mangiata con voluttà, con l’orgoglio di chi sa riconoscere la sacralità della semplicità. Il cibo diventa liturgia popolare, e la tavola un’ara domestica.

Giacomo Nani, maestro della natura morta, coglie invece la pasta nel suo stato più silenzioso, eppure più potente. In “Natura morta con piatto di maccheroni”, i maccheroni esondano dal piatto, sensualmente realistici. Un pezzo niveo di formaggio, posato sulla grattugia, attende di fondervisi. È un invito al tatto, all’olfatto, quasi un inganno per la vista: il quadro si immagina di gustarlo dove la pasta diviene promessa multisensoriale.

Poi il Novecento rompe gli schemi e reiventa il linguaggio. La Pop Art, con Andy Warhol e Mimmo Rotella, sottrae la pasta alla tavola per proiettarla nel mito. Non più maccheroni fumanti, ma icone da scaffale, confezioni patinate, barattoli ripetuti all’infinito. Il cibo diventa simbolo del consumo, dell’abitudine, della società. Eppure resta lì, intatto nella sua forma: testimone silenzioso di una rivoluzione visiva.

E infine c’è Renato Guttuso, pittore del vero e del vissuto. “L’uomo che mangia gli spaghetti” è un ritratto feroce e commovente dell’Italia che fu. Il piatto di pasta qui è scarno, ma ingollato con brama; la tovaglia è storta, malmessa, la luce quasi assente. Si mangia con fretta, con bisogno, con quella fame che non è solo dello stomaco, ma figlia dell'horror vacui dell’anima. È una scena domestica questa, che si fa manifesto: l’arte torna a raccontare la vita, senza infingimenti.

La pasta, dunque, è un gesto ancestrale, una grammatica visiva, un archivio culturale. È una lingua senza lemmi, un’arte senza cornici. Sta nei dipinti come sta nei nostri ricordi, nei lunghi e pigri pranzi della domenica come nelle tele da museo. È sostanza e simbolo, realtà e rappresentazione.

E forse proprio per questo – tra tutti i soggetti possibili – la pasta è rimasta, nel tempo, una delle immagini più potenti e autentiche. Perché sa raccontare molto: la fame e la festa, la miseria e l’identità, il rito e il bisogno. Sa farsi specchio e memoria. Sa essere arte.