
SPAGHETTI D'ARABIA
l'insospettabile odissea della pasta
17 giu 2025

SPAGHETTI D'ARABIA
l'insospettabile odissea della pasta
17 giu 2025

SPAGHETTI D'ARABIA
l'insospettabile odissea della pasta
17 giu 2025
Chi ha detto pasta, ha detto Italia. Un sillogismo quasi pavloviano, un'equazione del gusto che ci rassicura nelle nostre granitiche certezze gastronomiche. Eppure, a voler soffiare via la patina della tradizione nazionalpopolare, si scopre un'origine più nomade, un passaporto che porta timbri di deserti e di spezie.
Dimenticate per un istante le nonne emiliane e i porti di Napoli. Il nostro punto di partenza è un altro: il genio pratico del mondo arabo medievale. L'esigenza non era ovviamente il pranzo della domenica, ma la sopravvivenza. Come conservare i cereali per le lunghe traversate delle carovane o per i lunghi e duri periodi di carestia ? La risposta fu un'intuizione folgorante: trasformare un impasto di semola e acqua in filamenti sottili e, soprattutto, farli essiccare al sole.
Nasceva così la itriyah, l'antenata diretta dei nostri spaghetti. Un cibo secco, leggero, quasi eterno, perfetto per sfidare il tempo e lo spazio. Non era ancora un piatto del cuore, ma un concentrato di calorie e intelligenza. Le prime testimonianze scritte ci portano tra il IX e l'XI secolo, in un'area che va dalla Siria all'Iraq, dove questi vermicelli venivano cucinati in brodi o con salse leggere.
Ma come approda questo tesoro in Italia? Semplice: con le navi saracene. È nella Sicilia araba, un crogiolo ribollente di culture e sapori, che la itriyah mette radici. Il geografo arabo Al-Idrisi, nel 1154, descrive con precisione la cittadina di Trabia, vicino Palermo, come un luogo dove si produceva pasta in grandi quantità per esportarla in tutto il Mediterraneo. Un vero distretto industriale ante litteram.
Così, la prossima volta che arrotolerete uno spaghetto con gesto quasi liturgico, pensateci per favore! Quel filo dorato non è solo l'emblema del Bel Paese, ma la eco di un'idea geniale nata sotto un altro sole, un ponte di grano duro che unisce le sponde del nostro mare. Un'eredità che abbiamo fatto nostra, certo, sublimandola. E la gratitudine, anche in cucina, è un ingrediente che non dovrebbe mai mancare.
Chi ha detto pasta, ha detto Italia. Un sillogismo quasi pavloviano, un'equazione del gusto che ci rassicura nelle nostre granitiche certezze gastronomiche. Eppure, a voler soffiare via la patina della tradizione nazionalpopolare, si scopre un'origine più nomade, un passaporto che porta timbri di deserti e di spezie.
Dimenticate per un istante le nonne emiliane e i porti di Napoli. Il nostro punto di partenza è un altro: il genio pratico del mondo arabo medievale. L'esigenza non era ovviamente il pranzo della domenica, ma la sopravvivenza. Come conservare i cereali per le lunghe traversate delle carovane o per i lunghi e duri periodi di carestia ? La risposta fu un'intuizione folgorante: trasformare un impasto di semola e acqua in filamenti sottili e, soprattutto, farli essiccare al sole.
Nasceva così la itriyah, l'antenata diretta dei nostri spaghetti. Un cibo secco, leggero, quasi eterno, perfetto per sfidare il tempo e lo spazio. Non era ancora un piatto del cuore, ma un concentrato di calorie e intelligenza. Le prime testimonianze scritte ci portano tra il IX e l'XI secolo, in un'area che va dalla Siria all'Iraq, dove questi vermicelli venivano cucinati in brodi o con salse leggere.
Ma come approda questo tesoro in Italia? Semplice: con le navi saracene. È nella Sicilia araba, un crogiolo ribollente di culture e sapori, che la itriyah mette radici. Il geografo arabo Al-Idrisi, nel 1154, descrive con precisione la cittadina di Trabia, vicino Palermo, come un luogo dove si produceva pasta in grandi quantità per esportarla in tutto il Mediterraneo. Un vero distretto industriale ante litteram.
Così, la prossima volta che arrotolerete uno spaghetto con gesto quasi liturgico, pensateci per favore! Quel filo dorato non è solo l'emblema del Bel Paese, ma la eco di un'idea geniale nata sotto un altro sole, un ponte di grano duro che unisce le sponde del nostro mare. Un'eredità che abbiamo fatto nostra, certo, sublimandola. E la gratitudine, anche in cucina, è un ingrediente che non dovrebbe mai mancare.
Chi ha detto pasta, ha detto Italia. Un sillogismo quasi pavloviano, un'equazione del gusto che ci rassicura nelle nostre granitiche certezze gastronomiche. Eppure, a voler soffiare via la patina della tradizione nazionalpopolare, si scopre un'origine più nomade, un passaporto che porta timbri di deserti e di spezie.
Dimenticate per un istante le nonne emiliane e i porti di Napoli. Il nostro punto di partenza è un altro: il genio pratico del mondo arabo medievale. L'esigenza non era ovviamente il pranzo della domenica, ma la sopravvivenza. Come conservare i cereali per le lunghe traversate delle carovane o per i lunghi e duri periodi di carestia ? La risposta fu un'intuizione folgorante: trasformare un impasto di semola e acqua in filamenti sottili e, soprattutto, farli essiccare al sole.
Nasceva così la itriyah, l'antenata diretta dei nostri spaghetti. Un cibo secco, leggero, quasi eterno, perfetto per sfidare il tempo e lo spazio. Non era ancora un piatto del cuore, ma un concentrato di calorie e intelligenza. Le prime testimonianze scritte ci portano tra il IX e l'XI secolo, in un'area che va dalla Siria all'Iraq, dove questi vermicelli venivano cucinati in brodi o con salse leggere.
Ma come approda questo tesoro in Italia? Semplice: con le navi saracene. È nella Sicilia araba, un crogiolo ribollente di culture e sapori, che la itriyah mette radici. Il geografo arabo Al-Idrisi, nel 1154, descrive con precisione la cittadina di Trabia, vicino Palermo, come un luogo dove si produceva pasta in grandi quantità per esportarla in tutto il Mediterraneo. Un vero distretto industriale ante litteram.
Così, la prossima volta che arrotolerete uno spaghetto con gesto quasi liturgico, pensateci per favore! Quel filo dorato non è solo l'emblema del Bel Paese, ma la eco di un'idea geniale nata sotto un altro sole, un ponte di grano duro che unisce le sponde del nostro mare. Un'eredità che abbiamo fatto nostra, certo, sublimandola. E la gratitudine, anche in cucina, è un ingrediente che non dovrebbe mai mancare.



